Sfregoletter #2 − Dolore e sentimento
La prima settimana dell’Era Trumpista (Bis) deve ancora finire e abbiamo già i nervi a pezzi. Qualcuno anche lo stomaco. Ma tutto questo dolore, poi, ci sarà utile?
Ciao,
io sono Chiara Sfregola, e questa è Sfregoletter, la newsletter che parla del valore emotivo della politica.
Tocca fermarsi un attimo a rifiatare perché è stata una settimana da farci girare la testa: nello stesso giorno TikTok non è stato disponibile negli USA e poi lo è stato di nuovo, con tanto di ringraziamento al Presidente Trump (che però doveva ancora giurare). Israele ha bombardato la Palestina nonostante la tregua, il giorno dell’insediamento Musk ha fatto il saluto nazista (o forse no, a seconda di quanto siete delulu), il giorno dopo un plico alto così di ordini esecutivi di Trump ha realizzato una quantità di cose orrori tale che il mio primo pensiero è andato al suo staff e agli straordinari d’Aprile.
Come stiamo? Fa male tutto. Vedere il braccio teso di Musk mi ha fatto stare fisicamente male. L’immagine, già entrata nella storia, di uno che supporta il partito neonazista tedesco e fa il saluto romano fascista mi ha turbata in maniera viscerale. E dire che in questi anni di dolori ne abbiamo avuti, ma la pantomima a stelle e strisce del terzo reich li batte tutti: è stato come assistere al funerale della democrazia.
E quello era solo l’inizio.
Si è detto che la sinistra ha perso consensi perché si è concentrata sui diritti civili invece di tutelare chi lavora, ma la verità è che l’ossessione per i pronomi ce l’ha la destra. E infatti tra gli ordini esecutivi firmati da Trump un paio riguardano il lavoro e sono quelli che elimina lo smart working per i dipendenti pubblici, e quello che elimina gli uffici DEI a livello federale.
Insieme all’abolizione dello Ius soli, l’atto che ha fatto scalpore è quello che dichiara che esistono solo due sessi (è vietato parlare di genere), e che va usato sui documenti il sesso rilevato “al momento del concepimento”, cioè quel momento meraviglioso in cui siamo tutte femmine. Un attacco dichiarato alle persone trans* che addolora ma non stupisce. L’attacco alle minoranze parte sempre da quelle considerate più marginali, più distanti dalle masse, più invisibili.
Insieme alle persone migranti le soggettività trans* sono, da questo punto di vista, le vittime perfette: la visibilità le rende più esposte alla violenza, specie se sono donne: quella fisica da parte degli uomini e l’odio da parte di quelle che ormai sono celebri come TERF (Trans Excluding Radical Feminist). Di JK Rowling si è già parlato ampiamente ma qui in Italia pure ci sono degne rappresentanti della categoria, come Marina Terragni, recentemente nominata Garante dell’Infanzia. Terragni è una che persino la Casa delle Donne di Milano, tempio del femminismo delle differenze, ha disconosciuto, visto che ultimamente sembra non avere argomenti politici di conversazione se non la GPA e l’odio verso le persone trans*, in particolare quelle più giovani.
L’odio causa dolore alle persone che lo subiscono e a quelle che sono loro vicine, e in un momento storico in cui l’odio viene legittimato, celebrato, incaricato di gestire la cosa pubblica, il livello di dolore è altissimo. Scegliere di eliminare il dolore dalla propria vita è invitante: girarsi dall’altra parte, non pensarci, distanziarsi, permette di dormire sonni tranquilli e risparmiarsi discussioni infuocate. Specie quando la cosa non ti riguarda personalmente. Ma io credo che questa strategia di evitare il dolore non dia buoni risultati, per due motivi:
Il dolore è uno stalker, ti raggiunge ovunque: se oggi scegli di girare la testa dall’altra parte perché delle categorie sotto attacco non te ne importa un granché, stai solo rinviando il problema. Chi governa spargendo odio troverà sempre nuove vittime, la prossima potresti essere tu. E sappiamo già che le donne sono nel mirino di questa amministrazione. Trovo emblematico che moglie e nipote di Trump abbiano deciso di indossare per l’inaugurazione abiti che ricordano il racconto dell’Ancella. Se l’Italia, come canta Willlie Peyote, è una grande sitcom, gli Stati Uniti, dopo un secolo di narrazione epica di sé stessi, stanno entrando direttamente in modalità distopia, altro genere letterario in cui sono insuperabili. Quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi è un incrocio fra i libri di Margaret Atwood e quelli di cyberpunk di Gibson, di cui consiglio vivamente la lettura o la rilettura. Il mondo, di fatto, è in mano alle multinazionali, e quelle non le votiamo, non sappiamo come liberarcene. È questo a portarci il sentimento di dolore: non il dolore in sé, ma il sentimento di impotenza. Quand’è che si piange? Quando non si può fare più nulla.
Il dolore non si evita, si supera. Diretta conseguenza del punto qui sopra. Che la vita sia dolore non è solo un principio cardine del buddismo, ma una verità universale (lo sanno bene i millennial, predicatori del #Mainagioia ) perché vogliamo ciò che non abbiamo. In questo momento diritti, giustizia sociale, la sensazione di non essere in mano a una manciata di pazzi, la speranza di poter fare qualcosa per un pianeta che sta andando a fuoco. Finché non guadagneremo tutto questo, tocca soffrire. Non è detto sapere per quanto, ma parrebbe molto.
Detto questo, mi fa parecchio irritare la mistica del dolore. Il dolore non rende migliori, non conferisce nessuna superiorità morale. È un fatto della vita, incarnare l’esempio di mater dolorosa per assurgere ad una qualche santità, specie se donne, mi è sempre parsa una strategia fessa. Il dolore logora chi ce l’ha, perché appunto è l’assenza di potere (parola da intendersi in senso ampio qui).
E dunque, quale sarebbe il valore politico del dolore? A quanto racconta Lina Merlin, Filippo Turati prima dell’esilio le disse quello che poi sarebbe diventato il suo motto: bisogna saper soffrire per vincere.
Non vuol dire che il dolore sarà utile, ma che alla sofferenza bisogna accompagnare un ideale, una fede, qualcosa in cui credere, insomma: la speranza della vittoria.
Facciamo come faceva Troisi, e soffriamo bene.
Sfregoletter torna sabato 1 febbraio.
Scrivere bene e scrivere di politica così è fatto raro, penso che oggi ce ne sia più bisogno che mai. Continua dunque (e spero che si possa ricostruire un collettivo in cui dire continuiamo) a farlo.
Un consiglio, il colore del testo e quello die link non è molto differente, son dovuta arrivare all'ultimo per capire che fossero link, consiglierei di scriverli in azzurrino o blu o comunque un colore diverso dal nero che è troppo simile al grigio della newsletter