Sfregoletter #8 − Il nostro femminismo è in crisi
E non possiamo più fare finta di niente
Arrivare all’8 marzo con un femminismo spaccato in due è come arrivare al pranzo di Natale con i genitori sull’orlo della separazione. Non importa di chi siano le colpe: l’onta del fallimento colpisce la famiglia nel suo intero, il malumore si propaga a figli, parenti e amici divisi in fazioni, e, accanto a chi prova un sincero dispiacere per la fine di una storia, c’è sempre qualcuno che ne gioisce. Per interesse nei confronti di uno dei due, per la possibilità di monetizzare dal dolore altrui, per il gusto di poter dire: "ve l’avevo detto che quei due non c’entravano niente assieme".
Prima di diventare completamente invisibili nel dibattito politico e sprofondare nell’oblio anni ’80 che seguì il femminismo di seconda ondata, va detta una cosa: alla fine di questi dieci anni di quarta ondata femminista siamo arrivate malconce, divise, frustrate. E quello che è peggio è che non abbiamo concluso un granché. Possiamo specchiarci nello sguardo dell’altra e dircelo: il nostro femminismo è in crisi. Cerchiamo di capire perché.
Ciao
Io sono Chiara Sfregola e questa è Sfregoletter, la newsletter sul valore emotivo della politica.
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La settimana dell’otto marzo 2025 -poiché ogni singola giornata di qualcosa ormai diventa una ghiotta occasione per riempire palinsesti con una serie di eventi a tema− si è aperta con una problematica lettera dell’Unione delle Donne Italiane (UDI) che ha scatenato il panico all’interno della bolla femminista facendola scoppiare.
Il nome dell’UDI forse a qualcuno non dice nulla, ma è tipo l’ANPI del femminismo: un’associazione nata dopo la seconda guerra mondiale con nobili intenti e l’ambizione iperottimista che solo i dopoguerra conoscono di unire TUTTE le donne italiane per migliorarne la condizione. Beh, ci sono riuscite. Dal diritto di voto alla parità salariale inserita in costituzione, dal diritto della lavoratrice incinta a non perdere il posto alla possibilità di entrare in magistratura, dalla riforma del diritto di famiglia alla pensione per le casalinghe, l’UDI c’è sempre stata.
E ha portato a casa risultati.
Un’associazione fondata da donne che hanno fatto la resistenza prima e l’assemblea costituente poi, caratterizzata da quel pragmatismo eccezionale che ti viene dall’aver letteralmente messo in piedi uno stato. Negli anni queste donne sono invecchiate, il ricambio generazionale è venuto meno e sono nate altre realtà. L’ultimo congresso nazionale di UDI è del 2016, anno di fondazione di Non Una Di Meno.
Non una di meno è la traduzione in italiano di "Ni una menos", il movimento argentino nato nel 2015 in risposta ai femminicidi dilaganti nel Paese. Il nome deriva da un verso della poeta messicana Susana Chávez "ni una mujer menos ni una muerta más" (non una donna in meno né una morta in più) poiché anche in Messico il tasso di femminicidi è altissimo (10 al giorno).
La fondazione del movimento ha le sue radici nel contrasto alla violenza di genere, e in quello italiano l’UDI ha avuto la sua parte nella promozione della prima manifestazione del 25 novembre 2016 (un appuntamento ormai cruciale nel calendario dei movimenti).
C’è stato dunque un momento di connessione anche importante fra le due realtà che successivamente sono diventate organizzazioni distinte: adesso NUDM ha un coordinamento nazionale e sedi in varie città d’Italia, una sua linea di comunicazione molto precisa e un posizionamento chiaro all’interno della galassia femminista.
L’anno di nascita non è casuale: fra il 2015 e il 2016 è nata la quarta ondata del femminismo, quello social, quello di Beyoncé con la megascritta "FEMINIST" sul palco, quello delle magliette Dior a seicento euro con le scritte di Chimamanda Ngozi Adichie "We should alle be feminist" indossate da Chiara Ferragni al suo addio al nubilato. O, più modestamente, quello delle magliette di H&M a quindici euro con le scritte "The revolution is female" che ho comprato all’addio al nubilato di una mia amica a Berlino nel 2017. È stato il periodo in cui essere femministe ha ricominciato a essere di moda perché il femminismo mieteva consensi in un’epoca che ora possiamo definire quasi una Golden age dei diritti (all’epoca non lo sapevamo, eravamo troppo agguerrite per essere contente).
In quegli anni succedono altre tre cose: nel 2015 gli Stati Uniti approvano il matrimonio egualitario, nel 2016 in Italia vengono approvate le unioni civili e nel 2017 scoppia la bolla del Me too. In questo clima di euforia le istanze del femminismo si allargano e finiscono con l’includere diritti LGBTQIA+ e violenza sessuale/molestie. Mentre le girlboss se la scoattano perché avviano business milionari (e Sheryl Sandberg scrive Lean in, per imparare a diventare non dico milionarie ma pagate decentemente), l’asse politico delle rivendicazioni si sposta. In questa quarta ondata, attenzione, non si parla di liberazione sessuale come negli anni settanta. Non si parla di donna clitoridea e donna vaginale, non si parla di amore libero, e -questo è un punto importante− non si parla di maternità.
In quarta ondata, spesso ingiustamente accusata di faciloneria perché ha trovato su Instagram un efficace mezzo di comunicazione di massa, si parla di identità sessuale e orientamento sessuo-affettivo, si parla del poliamore, si parla di sfamiglie, e piano piano si arriva a parlare di femminismo intersezionale, poi di trans femminismo queer (che ci volete fare, abbiamo mutuato da Paul B. Preciado questa tendenza a creare accrocchi di parole manco fossimo in Germania). Ora la sto semplificando, ma la sintesi è che in quarta ondata le istanze si allargano, includendo le battaglie per le disabilità (anche quelle invisibili), per la salute mentale e per una serie di categorie di persone solitamente escluse dal dibattito, che in movimentese prendono il nome di "soggettività".
Qui sta il punto: il femminismo, post 2016, comincia a diventare -in maniera più marcata di quanto non fosse stato in passato− un amalgama di soggettività. Non è che le soggettività non ci fossero prima (le lesbiche negli anni settanta venivano regolarmente escluse dal femminismo, leggetevi la storia della Lavander Menace), ma non trovavano nel femminismo il loro polo aggregativo. In questo nuovo amalgama le donne etero cis - gruppo identitario predominante nel movimento femminista storico− cominciano a perdere di centralità a livello di istanze, pur rimanendo la maggioranza in termini numerici.
Ora io la lettera dell’UDI non la riporto, vi metto qui il link e potete leggerla da voi, ma va letta in un contesto in cui la progressiva marginalizzazione delle istanze delle donne (etero) cis si è rivelata una ferita aperta, e come tutte le ferite aperte è diventata un portale di accesso per le infezioni. Quello che intendo dire è che questa ferita mai rimarginata ha aperto la strada alla destra. Quella destra che ha sempre visto nel femminismo un nemico, ma in queste donne "dimenticate" dal femminismo contemporaneo ha trovato un bacino elettorale. Che questa dimenticanza sia vera o immaginaria poco importa: viene vissuta come tale, e vota di conseguenza. Come la sinistra con gli operai che votano per il partito del padrone, per capirci.
È successa un po’ la stessa cosa che vediamo oggi con i giovani maschi: si sono spostati (tanto) a destra mentre le giovani donne sono sempre più progressiste. L’hanno fatto per paura di perdere i propri privilegi. E poiché la mascolinità è basata più di ogni altra cosa sul disprezzo per le donne e sulla loro oppressione, la risposta della maschiosfera all’emancipazione femminile passa necessariamente per la sua soppressione. E non, purtroppo, sulla ridefinizione di una mascolinità che si interroghi su chi sia un uomo indipendentemente dal genere femminile.
Questo ragionamento è, paradossalmente, figlio di una mentalità che ha sempre concepito le donne come funzione degli uomini (mogli di, madri di, figlie di, ecc), e il femminile come variante del maschile, che rimane lo standard. Quindi nel momento in cui le donne si sono pensate e determinate in maniera autonoma, come soggetti a sé stanti, come standard e non come varianti di alcunché, questa mentalità ha perso il suo fondamento. E, nel tentativo frenetico di trovare un nuovo baricentro, ha reagito con un pensiero che vede gli uomini esistere solo in funzione delle donne. In quanto oppressori.
Non è stato necessario pensare a un mondo dominato delle donne, è bastato il fantasma dell’uguaglianza a creare questa situazione. Perché se togli al carnefice la sua vittima, che fa il carnefice da solo?
Checco Zalone fa un’ipotesi.
Ma torniamo a noi e alle nostre lotte intestine.
L’UDI, nella sua lettera aperta, definisce la donna come "adulta umana di sesso femminile" e si denuncia "sconcerto per l’uso di asterischi e parole neutre". Dice: come si fa a parlare di donne se si ha paura di usare questa parola? Il sottotesto lo esplicita una pagina come "Femministero" che nei suoi post se la prende spesso -in maniera anche violenta− con la "queer mob" (la celebre Lobby Gay) e accolla alla componente queer del movimento il fallimento del femminismo, cosa quantomeno interessante perché una bella spinta a destra l’ha data Arcilesbica prendendo posizione nettamente contraria alla GPA.
La lunga lettera dell’UDI è stata molto criticata dalla parte più vocale del movimento, ovvero quella transfemminista queer, ma esprime un sentire più ampio e include sicuramente anche quelle donne che non fanno parte del movimento femminista in maniera attiva ma nutrono un mucchio di preoccupazioni sulla propria condizione. E questo sentire, per quanto scomodo, non può essere ignorato. Silenziarlo contribuisce solo a fare una cosa: far migrare queste persone verso una sponda dove si sentono più accolte. E quella sponda è a destra. Non possiamo permetterlo.
La conversazione fra femminismi dunque si è incagliata su un tema cruciale: che cosa è una donna. La questione risulta sorprendentemente divisiva, e così da un lato abbiamo quelle chiamate TERF (Trans Excluding Radical Feminists, le femministe radicali trans escludenti) che eliminano dall’insieme delle donne quelle trans, dall’altro abbiamo il trans femminismo queer che include nel dibattito una pluralità di soggetti ed esclude le TERF (l’anno scorso al corteo dell’otto marzo ho visto più cartelli contro le TERF che contro il patriarcato). Nel movimento (trans)femminista non si parla più di donne, si parla di soggettività. Di persone socializzate donne. Di donne trans. Di soggettività non binarie. Nel manifesto di NUDM per questo otto marzo si legge “donne e soggetti femminilizzati”.
Il dibattito si è fatto violento, polarizzato, pare impossibile trovare una sintesi (appunto, sembra il primo Natale dopo il divorzio), e la mia sensazione è che tante persone si trovino sperse nel mezzo, nel senso che non si sognano di dire che le donne trans non siano donne, ma si rifiutano di farsi definire "soggetti femminilizzati" o “persone con utero”. La crisi identitaria che traspare dalle scelte lessicali è una frattura profondissima che come tutte le fratture ci tiene in uno stato di paralisi. camminarci sopra, ignorandola, fa solo danni.
Nei vari documenti politici di NUDM non c’è una parola che riguardi la maternità (ce ne sono varie su aborto e contraccezione), né sugli asili nido, ma sappiamo che il tema della maternità − anche solo potenziale− è alla base della disparità salariale, che la presenza di figli rende più difficile l’indipendenza economica e quindi abbassa le possibilità di uscire da una situazione di violenza, o semplicemente da un matrimonio infelice.
Di conseguenza, dall’altra parte si è creata una bolla che non fa che parlare di maternità, trascinando la gravidanza al centro dell’identità femminile. In un’epoca in cui la fertilità è ai minimi storici e servono due stipendi per mantenere una coppia con figli.
Dove c’è un vuoto, dove c’è confusione, arriva sempre la destra con delle risposte chiare, che semplificano, snelliscono, rassicurano. E colgono dove non ti aspetti. Sappiamo già delle battaglie di Arcilesbica contro la GPA, rilanciate a destra, ma abbiamo visto pure, la scorsa estate, il delirio attorno a Imane Khalif, e alle donne trans nello sport. Anche se Khalif non è una donna trans. Angela Carini ha incontrato il supporto della destra, la stessa destra che si è appuntata la spilletta del codice rosso e del femminicidio punito con l’ergastolo, che ha nominato la (ex) femminista radicale Eugenia Roccella ministra per le pari opportunità. Con l’occasione della "Festa della donna", per dire, il governo Meloni fa post per riepilogare i propri risultati e delle misure a favore delle donne: il primo risultato, bene in evidenza, è la conciliazione vita lavoro, insieme al supporto alle mamme lavoratrici.
Dunque, mi duole dirlo, veramente tantissimo, ma da donna lesbica e senza figli ho come la sensazione che il filo comune di questa conversazione sia la maternità. Perché il terreno di battaglia è sempre il corpo delle donne, che ci piaccia o meno, per la sua possibilità di generare. Alla fine, non è per questo motivo che si fanno le guerre? Per avere più terreno da cui estrarre cibo, oro, silicio? Il corpo degli uomini è politicizzato solo quando vale qualcosa, cioè in guerra.
È vero: non sappiamo più cos’è una donna. Ma non è che non lo sappiamo più perché esistono le donne trans -che sono sempre esistite e che hanno iniziato i moti di Stonewall, sarebbe il caso di ricordarlo−, bensì perché abbiamo faticato tanto a uscire dai ruoli di genere, e adesso che ne siamo uscite abbiamo idee diverse sulla direzione da prendere.
Se la crisi della mascolinità è dettata del venire meno di un genere da opprimere, la crisi della femminilità, o se volete del femminismo, è dettata dal conflitto fra due desideri: da un lato quello di non essere più un oggetto sessuale e sessuato, legato a doppio nodo al tema della maternità, e dall’altro quello di rivendicare la propria sessualità in modo che sia sorgente di potere, di espandere il concetto di identità sessuale, e di vivere in un mondo in cui la maternità non sia una condanna a morte. Viviamo in tempi in cui si parla molto di più del desiderio di maternità che del desiderio sessuale, e siamo anche nella prima epoca storica in cui la maternità -grazie alla tecnologia− è slegata dalla sessualità, così come il sesso è slegato dal genere. Viviamo in tempi in cui si parla(va) di body positivity ma gli interventi di medicina estetica e chirurgia plastica sono ai massimi storici, in cui si usano farmaci contro il diabete per dimagrire e i supermercati sono strapieni di prodotti proteici.
Viviamo in tempi in cui ci si sgola a parlare di percorsi di femminicidio e di cultura dello stupro, e poi le adolescenti scrivono e leggono libri in cui la brava ragazza si innamora di un tipo che potrebbe ucciderla (da Twilight in poi il calco è questo).
Viviamo in tempi in cui il corpo è sia campo di battaglia sia vetrina, mezzo di produzione e merce al tempo stesso.
Viviamo, insomma, in un’epoca di conflitti interiori fortissimi, un’epoca in cui la scissione fra ciò che vorremmo essere e ciò dovremmo essere è dilaniante.
Un appello all’unità, per quanto mi riguarda, sarebbe necessario, ma ingenuo: stiamo vivendo la scissione di Livorno del 1921, quando comunisti e socialisti si separarono. Non credo che da qui si possa tornare indietro: se non si è d’accordo su chi debba essere il soggetto del femminismo è difficile ricostituire un movimento unitario e coeso.
Ci troviamo a testimoniare il momento in cui la quarta ondata del femminismo si sta ritirando. È già successo in passato: questa cosa delle maree l’abbiamo introiettata a sufficienza da sapere che con certi chiari di luna o si muore in riva o ci si fa trasportare dalle onde in mare aperto, con tutta la possibilità di annegare che ne consegue. Chi rimane a riva, se sopravvive, può puntare su una quinta ondata. Arriverà, ne sono certa, e sarà più forte di prima.
Sfregoletter torna sabato 15 marzo.
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Un bellissimo articolo, io sono una di quelle persone che si rifiuta di essere chiamata “persona con utero” ma non ha niente in contrario se qualcuno vuole farcisi chiamare. Penso che la parola Donna sia piena di un’identità che dobbiamo affermare e coltivare e non possiamo permettere che dire “donna” diventi dire “di destra”
Io credo che sia in parte un problema di “etichette”, di questo attaccamento morboso a termini specifici con l’illusione che la nostra identità possa essere contenuta in una singola parola e dal conseguente sviluppo di una forma di gelosia nel momento in cui un soggetto dissimile tenta di appropriarsene. Finché ci si divide sulla base di quello che siamo e non ci si unisce sulla base di valori ed obiettivi comuni per la creazione di una società che sia adatta per chiunque questo è il risultato.